domenica 30 dicembre 2012

Per Damini, Sen... e tutte "le altre".


siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo. È la qualità più bella di un rivoluzionario
[E. Guevara]


Qualche giorno fa è morta la ragazza indiana stuprata da sei uomini, per ore, su un autobus. È morta dopo settimane di agonia, mentre le donne di tutta l'India si riversavano nelle strade, pregando, urlando, piangendo la loro solidarietà, la loro rabbia, la loro voglia di non essere più vittime di uomini-belve e di un sistema loro complice. Mentre Damini era agonizzante sul letto di un'ospedale lontano, le donne indiane prendevano forza e coraggio mettendosi in gioco, come in uno strano gioco di scambio di energie vitali: una vita muore lentamente mentre lentamente la coscienza civile nasce, cresce e si ribella.
Damini, Nirbhaya, Amanat: sono degli splendidi pseudonimi scelti per l'ennesima giovane martire di un sistema complice e colpevole. “Senza paura”, “fiduciosa”, “leale”, “coraggiosa”.
Non starò qui a sciorinare le statistiche degli stupri commessi in India nell'ultimo anno, né dei suicidi delle donne che hanno subito quegli stupri.
Ricorderò solo quell'altra ragazza stuprata in un altra città indiana, proprio mentre Damini era in ospedale, suicidatasi perché, dopo aver deciso di denunciare gli stupratori (si, anche in questo caso si tratta di uno stupro di gruppo), si era sentita dire da un poliziotto che era meglio se ritirava tutto e si sposava uno degli aggressori. Questo basta più di ogni numero, statistica o percentuale.
È in questa circostanza che mi è balenato in mente il titolo di un articolo letto qualche tempo fa “Ha ancora senso essere femministe”. Ironia della sorte, Sen, la ragazza che ha scritto questo articolo, l'ha uccisa il suo ragazzo, un anno fa.
Si, ha senso essere femministe per Stefania; per il prete che scrive che siamo noi a provocare gli stupri; per quelli che non la pensano come lui ma, soprattutto, per quelli che la pensano come lui. Su tutti, però, ha senso essere femministe per quelle donne indiane, africane e latino americane, le donne che vivono nelle periferie del mondo e che, purtroppo, ancora non hanno la voce che abbiamo noi. Perché non tutte quelle uccise, stuprate, sfruttate, maltrattate e oppresse riescono ad avere un nome nelle mente di tutte noi come quello di Stefania Noce o Damini. Perché in alcune (sempre troppe) parti del mondo uno stupro non è stupro, un abuso non è abuso, oppressione non è oppressione: tutto questo è normalità, quotidianità, tradizione. È per queste donne rimaste nell'anonimato delle periferia e di una malata "normalità" che per me ha ancora senso essere femminista. È per loro, per noi, che mi ritengo ancora femminista e non una che “segue una moda” o “una nostalgica”, come alcuni mi hanno bollata in passato.
Di strada ce n'è ancora molto da fare. Abbiamo appena iniziato.

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